Giornalista Antifascista.

lunedì 4 luglio 2011

Mauthausen


Il termometro nella baracca 11 segna 14 gradi.
E' il 3 di luglio - fine mattinata - nel piazzale ci saranno 10 gradi, ed un vento gelido che ti taglia in due. Cade una pioggia fine, che gli ombrelli non riescono a fermare. In ogni caso anche aprire l'ombrello sembra futile, sembra quasi un insulto, pensando a chi, in questo piazzale, è rimasto ore ed ore in piedi, alle 4 del mattino, con uno straccio addosso, gli zoccoli nei piedi e senza aver mangiato.
Mi sento piccolo, inadeguato. Ennio Odino, che qui ha passato 14 mesi, dice che quando ritorna al campo è combattuto tra il restare - per testimoniare e per rimaner vicino a chi il campo non lo ha più lasciato - o scappare, andare via veloce. Anch'io sono combattuto, tra continuare la visita - il pellegrinaggio - ed uscire. Fuori puoi "ricordare", qui dentro vivi il ricordo.
Il contrasto tra la realtà dei prigionieri e le rivendicazioni sindacali delle guardie mi colpisce. Una giovane guida polacca spiega ad una scolaresca che era vietato guardare le SS negli occhi, perchè i prigionieri non erano uomini - erano numeri - ed azzarda una motivazione psicologica: se gli occhi degli aguzzini avessero incontrato quelli delle vittime, le SS non avrebbero forse avuto il "coraggio" di continuare le sevizie. Forse ha ragione, ma non riesco a togliermi dal fondo degli occhi le immagini della piscina, subito fuori dal muro di cinta, a disposizione dei soldati nel loro tempo libero. Del campetto da calcio, dove giocava la squadra del lager e dove si svolgevano gli incontri del campionato locale. E' difficile immaginare cosa possa passare per la testa di un essere umano che considera il suo ruolo nel campo come un "lavoro normale". Che negozia con l'Amministrazione per avere vantaggi extra-retributivi, come gli spazi ricreativi, la lavanderia per le uniformi ma anche per le famiglie, il bordello.
Cosa pensava l'ingegnere che ha progettato il sistema di riscaldamento, che parte dalla lavanderia, scende nelle docce e prosegue verso la cucina e la prigione. Le baracche dei prigionieri non sono riscaldate, ma la prigione si. E cosa pensavano i tifosi delle squadre avversarie, ed i bimbi del paese, mentre assistevano agli incontri che si giocavano davanti alla baracche della morte, quelle dove prima c'erano i russi e poi i prigionieri destinati a morire in pochi giorni. Ci racconta un signore che aveva allora 11 anni, che ci si riuniva qui - una domenica su due - per guardare le partite, fare il tifo. Sotto il fumo che usciva dai camini non lontani, con i carretti che portavano i cadaveri che costeggiavano gli spalti nel loro percorso verso i forni. Anche la domenica pomeriggio. Anche durante la partita.
Esco dal portone principale, ripercorro al contrario la strada che facevano i deportati quando, scesi dal treno, attraversavano il paese per giungere sotto la fortezza. Do le spalle a quel muro sormontato dal filo spinato e scendo tra i monumenti, le lapidi, verso la liberazione.

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