Giornalista Antifascista.

giovedì 25 giugno 2009


E' stato un lungo silenzio. Meglio tacere sul terremoto e la gestione dei soccorsi, facendo parlare chi era laggiù. Meglio tacere dei papi e papini, sull'uso di residenze pubbliche o quasi tali per supposti festini.


Vorrei pero' gettare "su carta", telematica ma sempre carta, alcune riflessioni sul velo. Una parlementare belga, di religione islamica, ha giurato indossando il velo. Il Presidente francese ha lanciato una sorta di "campagna" contro il burka, nelle scuole si riaccende il dibattito, con un Imam d'Anversa che ha esortato le ragazze di religione islamica ad abbandonare la scuola se non sarà loro consentito d'indossare il velo durante le lezioni.


Andiamo con ordine. Che un parlamentare metta in evidenza un suo credo, politico o religioso, nell'ambito delle sue attività politiche, non mi pone direttamente un problema. Se è stato eletto dal popolo lo è stato perchè un certo numero di elettori hanno creduto in quello che sosteneva. Che indossi la Kippa, il velo, il basco, la croce di S. Andrea, una spilletta con falce e martello o il pin della sagra del tartufo, francamente, non mi disturba. Finchè si è nell'ambito delle attività politiche e parlamentari.

Il discorso muta radicalmente quando la stessa persona, per quel principio che il diritto amministrativo definisce "l'immedesimazione organica", rappresenta lo Stato. Da quel secondo in poi, e per tutta la durata della 'rappresentazione', il parlamentare diviene "neutro". Come neutro è e deve essere lo Stato. Se interviene in Parlamento indossi quello che più gli aggrada. Se celebra un matrimonio, inaugura un ponte, incontra una delegazione straniera o un gruppo di studenti in rappresentanza dello Stato, via ogni orpello. Si accettano decorazioni, onoreficenze e simboli del pubblico potere quali fasce, bracciali o copricapo. Ma nessun riferimento a ordini religiosi, credenze filosofiche o politiche. In quel preciso momento la persona rappresenta la collettività. Tutta. Senza distinzioni.


Più complesso il discorso per il pubblico funzionario. Egli, Ella, è "per definizione" un rappresentante dello Stato verso l'esterno. Se esercita una funzione 'di servizio' senza esercizio di pubblico potere, quale quella dell'autista di autobus o di giardiniere, purchè i segni distintivi non interferiscano con la funzione, si metta pure il turbante o la catenina con S. Antonio. Se è dietro uno sportello a contatto con il pubblico, incarnando la discrezionalità amministrativa o un potere delegato dalla collettività allo Stato, sia scevro di segni distintivi. Un funzionario od un insegnante con la Kippa o la Kefia mi disturbano quanto il crocifisso nelle aule scolastiche o in quelle di giustizia. Il sapere e la giustizia si amministrano ed impartiscono senza distinzione di sesso, razza, religione, credi politici o filosofici.


Assai più complesso, secondo me, il problema degli "utenti" (parola volutamente neutra e mercantilista). Posso apparire in un'aula di giustizia con il velo quale testimone, imputato o attore? Non so perchè, ma propenderei per una risposta positiva. Assolutamente no, invece, se sono giudice popolare o togato o avvocato.

Ed arriviamo ora al tema più controverso. Posso, quale alunno, frequentare la scuola pubblica ostentando segni distintivi? Nonostante io sia il meno qualificato per rispondere, dopo i miei trascorsi liceali con abito con panciotto e saffi, puerile ma efficace simbolo di "ribellione al sistema" quanto la mia coda di cavallo il giorno della laurea in giurisprudenza, tenderei ad una risposta negativa. Perchè la Scuola, volutamente maiuscola, merita rispetto. Perchè se pretendo, ed io lo pretendo, che non vi siano segni "distintivi" sui muri delle aule e gli insegnanti tengano per il loro 'privato' le personali simpatie, debbo anch'io conformarmi a tale scelta.

L'invito cui facevo cenno poc'anzi, ad abbandonare la scuola pubblica che non ammetta l'uso del velo per le ragazze di religione islamica, mi appare pericoloso. Innanzitutto perchè rivolto alle sole ragazze. Non riesco ad accettare un credo che imponga ad una sola parte un segno di riconoscimento. Perchè i maschi di religione ebraica "debbono" indossare 'un segno' e le femmine no? Perché nella religione islamica è il contrario? In una società multietnica e multiculturale quale quella in cui stiamo vivendo, il solo immaginare una classe composta da sole bambine di religione ebraica e bambini musulmani, con il corollario di qualche cristiano o scintoista di passaggio, mi fa paura.

So che sto per azzardare un paragone esagerato, ma sia esso interpretato come un'iperbole, come un claim pubblicitario che è evidentemente fuori contesto, ma ha lo scopo d'attirare l'attenzione, di far discutere, senza che sia il 'contenitore' il soggetto, ma il contenuto.

La storia recente ci ha lasciato il ricordo delle stelle gialle cucite sugli abiti degli Ebrei. Non parlo di quelle cucite sulle uniformi nei Campi, segno distintivo come il triangolo rosso dei prigionieri politici che io porto orgogliosamente sul bavero della giacca perchè quel momento non sia dimenticato. Parlo di quelle cucite sui cappotti e sulle giacche all'entrata in vigore delle leggi razziali. Per marcare la differenza nella quotidianità. Sul quanto odiosi fossero quei simboli imposti non credo ci sia da discutere. Ecco, io non vorrei che la storia si ripetesse, anche se con presupposti diversi. Ho il timore che la questione del velo a scuola si trasformi in una "penalità self-inflicted", in un modo di 'autoghettizzarsi' che sarebbe altrettanto insopportabile, primo perchè colpisce una fascia 'debole' - ovvero quella degli adolescenti - che sono più esposti a certe manovre per la mancanza d'anticorpi esperienziali, mi si passi il neologismo per dire che sono meno 'scafati'. Secondo perchè, all'interno di tale fascia, colpisce esclusivamente le ragazze, che sono ancora più deboli, per una serie di condizionamenti sociali. La fanciulla che decida di togliere il velo si espone ad una serie di critiche che non vengono soltanto dal circolo degli affetti più cari, ma che si amplificano nello sguardo e negli atti di riprovazione dei suoi coetanei maschi, che, spesso condizionati e/o condizionabili, identificano tale gesto non come un segno di rispetto verso l'istituzione scolastica o di libertà personale, ma come espressione di 'libertà di costumi'. L'equivalenza "ragazza senza velo"/"ragazza facile" è spesso stata evidenziata negli studi sociologici.


L'imposizione di una totale neutralità, che si contrappone alle imposizioni religiose o filosofiche, puo' dunque servire a "proteggere". Accompagnata, ovviamente, da un intervento forte dei poteri amministrativi, che veglino a che essa non sia utilizzata come scusa per ritirare dagli studi, o per ghettizzare in scuole 'particolari'.

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