
Ci sono canzoni che sono indissolubilmente legate a ricordi.
Non posso ascoltare l’inno di Mameli senza pensare alla pizzeria “La Lupa” di Würzburg, dove ho sofferto, gridato e gioito assieme ai camerieri, al gestore ed a qualche amico in quella magica notte del 1982 quando battemmo la Germania.
Allo stesso modo, le note di Biko mi riportano al museo dell’apartheid, a Joburg. E’ un’esperienza emotivamente forte il museo, un percorso che si snoda tra documenti, testimonianze audio e video, autoblindo, sino a giungere allo spazio dedicato a Biko. Le parole di Peter Gabriel, diffuse a ciclo continuo nella sala, accompagnano il visitatore nello snodarsi di vari pannelli che raccontano la vita di un sindacalista, di un uomo che si è battuto sino alla fine.
September ‘77, (…) it was business as usual in police room 619.
Il suono dei tamburi ti fa vibrare la cassa toracica, trasformando una “visita culturale” in un esercizio anche fisico. Pensavo a questo mentre leggevo cosa è successo a Rosarno. A braccianti neri inseguiti nella boscaglia da fuoristrada pieni di uomini che gridavano “dagli al negro”.
Per quelle strane coincidenze della vita, le prime immagini di Rosarno le ho viste alla televisione tedesca, pochi minuti prima dell’inizio del congresso della Federazione Internazionale dei Resistenti a Berlino. Il commento del giornalista era piuttosto secco, facendo eco di “disordini” in una cittadina del sud dell’Italia, in cui immigrati di colore avrebbero dato fuoco a qualche cassonetto dell’immondizia, provocando la reazione dei “bianchi”. Tralasciando la scelta terminologica, è un’altra strofa di Biko che mi è venuta in mente , come un flash che colpisce i tuoi occhi quando meno te lo aspetti:
“You can blow out a candle, but you can’t blow out a fire, once the flame begin to catch the wind will blow it higher.”
Ecco che le coincidenze cominciano a sommarsi, lavoratori neri perseguitati perché osano tirare su la testa, l’intervento della polizia contro i manifestanti, gli inseguimenti nella notte, e poi il fuoco. Le notizie dei giorni seguenti ci hanno raccontato degli autobus che sono partiti per chissà dove, probabilmente altre terre di sfruttamento, delle indagini della magistratura sul ruolo della malavita organizzata, della manifestazione per riaffermare che Rosarno non è razzista. Ma a me rimangono altre immagini, altri ricordi.
Quelli d’un ragazzo nero spaventato, che racconta alla telecamera di una tv francese cosa vuol dire nascondersi nel buio e sentire le voci di quelli che ti cercano per bastonarti, per spararti con i pallini di gomma se sei fortunato, o con quelli da quaglia se ti va peggio, perché sei negro, perché sei uno schiavo, ed agli schiavi non è permesso alzare la testa, perché hai osato - o qualcuno del tuo stesso colore di pelle ha osato – dire basta, basta allo sfruttamento, al lavoro massacrante sottopagato o non pagato proprio.
Quelli che il mio dna calabrese riporta in superficie, delle lotte dei braccianti contro i padroni, contro i fascisti, dei processi in cui gli avvocati che difendevano i sindacalisti erano minacciati, pestati, a loro volta accusati, e finivano per lasciare la Calabria, per andare a combattere altrove, magari occupandosi della sicurezza di un giornalista sardo che dalle colonne de “L’Ordine Nuovo” scriveva di questo e di altro, ed avrebbe, qualche anno dopo, fondato un giornale che, ancora oggi, si chiama “L’Unità” ed un partito che, benché al momento sparso qua e la tra rivoli di primarie mal capite e sussulti d’orgoglio, meriterebbe di impegnarsi anche in questa battaglia.
Quelli dei cassonetti dati alle fiamme. Puoi soffiare sopra una candela e spegnerla, ma non puoi spegnere un fuoco con un soffio, quando la fiamma comincia a prendere il vento la spingerà più in alto. ‘Quel’ fuoco è stato spento, ma, da qualche parte, le braci rimangono rosse, celate sotto uno sguardo di paura, nascoste sotto quella che pare essere sottomissione, ma è solo atavica abitudine alla sofferenza.
Mi piacerebbe, come uomo di sinistra, che il mio partito ed il mio sindacato prendessero una posizione chiara, anche con i fatti, magari convocando una grande manifestazione, in cui si possa sfilare tutti assieme, un grande serpente colorato di nero, bianco, giallo e tutte quelle sfumature che la pelle d’un essere umano può avere, uniti sotto un unico striscione che dica, semplicemente, “NO”.
Mi piacerebbe, come pronipote di quell’avvocato che lasciò Palmi per andare a Torino, che anche gli eredi di quei braccianti calabresi che si ribellarono novant’anni orsono fossero dalla parte giusta delle barricate.
Mi piacerebbe pensare che non ci sia nessuna stanza 619 in qualche questura o stazione di Carabinieri, dove la vita di tutti i giorni non sia quella di calpestare i diritti di quelli che combattono per la libertà, per la vita.
Mi piacerebbe che Biko rimanesse un simbolo per tutti noi, e mi piacerebbe che la canzone di Peter Gabriel potesse continuare a ricordarmi un museo sudafricano, invece d’una macchia di sangue sull’asfalto d’una strada calabrese, campana, lombarda, pugliese, una qualunque di quelle strade del nostro Paese che potrebbero vedere, domani, riaccendersi la fiamma della legittima protesta.
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