
Squilla il telefono, apro gli occhi e guardo l’ora: 6:45.
Il traffico è già denso uscendo
da Cracovia direzione Auschwitz. Preoccupazione, curiosità, inquietudine … è
difficile descrivere i nostri pensieri mentre ci avviciniamo alla prima vera
tappa del nostro viaggio. Le formalità per entrare nel campo - per noi - sono
rapide ed il primo impatto è per ognuno una sensazione diversa: i binari, il
filo spinato, la scritta tornata al suo posto.
Attraversiamo la barriera
elettrificata ed entriamo nella prima baracca in cui, seguendo il percorso dei
deportati, viviamo l’annullamento della persona umana: “eravamo donne e uomini
scendendo dal treno, siamo un numero uscendo dalla baracca 1”.
La scala è
stretta, i gradini sono consumati; nella stanza che si apre un vetro divide il
visitatore di oggi da una raccapricciante montagna di capelli; la voce della
guida ci racconta che nel tempo hanno cambiato colore, ma la memoria delle
persone a cui sono appartenuti è viva dentro di noi. Usciamo con l’immagine
delle latte di cianuro ed è il colore delle scarpe, da quelle con il tacco alle
pantofole dei bambini, assieme ai nomi sulle valigie che ci accoglie nella
seconda baracca.
Un cumulo di occhiali aggrovigliati, ricordi di vite infrante:
la testa spaccata di una bambola di porcellana. Nel piazzale dell’appello il 7
di maggio ci sono 10 gradi. Nelle pozzanghere si riflette il plumbeo di un
cielo soffocante.
Ripassiamo sotto la
scritta, conservando nelle orecchie la storia di Luigi. Luigi sceglie di
entrare ad Auschwitz per accompagnare la nonna e cozza contro la cruda realtà che
li separa al primo appello. Non doveva essere il suo posto e non è il suo posto,
tanto che gli adulti lo nascondono, lo proteggono, lo nutrono, gli disegnano un
modo per sopravvivere. Luigi riattraverserà l’entrata del campo due anni dopo
la liberazione ed è con lui che facciamo il viaggio di ritorno verso Cracovia.
Dai finestrini dell’autobus scorrono i ristoranti e gli hotel dall’altra parte
del lager, che si confondono con le immagini dei nostri sorrisi tirati nel
tentativo di confortarci e delle risate fuori posto di qualche turista
dell’orrore.
Arriviamo davanti all’albergo con la consapevolezza del dovere
della memoria: “nunca mas”, mai più.
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